Carta vetrata – Un umile consiglio per scrivere le storie
- 31 Gennaio 2017
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Immaginate. Una mattina vi svegliate, determinati a spedire il soggetto per un fumetto a una Casa editrice. Puntate i gomiti sul materasso, e scoprite che nottetempo è diventato così viscido che le braccia vi scivolano lungo i fianchi. Non vi riesce di sollevarvi, e dopo diversi goffi tentativi scivolate a terra come anguille, e lì scoprite di non riuscirvi ad alzare, perché il pavimento è diventato come di vetro unto di sugna. Con movimenti da invertebrati riuscite ad arrivare strisciando fino al bagno, ma quando provate a issarvi in piedi aggrappandovi al lavandino le mani scivolano via e ricadete, in malo modo, a faccia in avanti sulle mattonelle. Ci provate ancora diverse volte, cercando di aiutarvi con gli strumenti/accessori/appigli più diversi, ma a un certo punto, esausti, lo ammettete: non state andando da nessuna parte.
Il motivo è che d’improvviso, nella vostra vita, manca l’attrito.
L’attrito è, in fisica, una forza che si oppone allo scivolamento di un corpo su una superficie. Per tutti quelli che vivono benissimo senza conoscere le tre leggi di Coulomb in materia, basti considerare che l’attrito radente è quello dovuto allo strisciamento di un corpo su una superficie, mentre l’attrito volvente è imputabile al rotolamento di un corpo su una superficie. Di quanto ne abbiate bisogno anche solo per uscire dal letto o alzarvi da terra credo di avervi già dato un’idea. È importante però che sappiate che anche la storia che volete scrivere ha bisogno di attrito.
Le storie hanno bisogno di conflitto, si dice in genere. Io trovo che questa parola a volte sia fuorviante, perché ha una connotazione bellicosa che, nel Fumetto, sembra voler alludere necessariamente a una qualche azione violenta. Di certo le storie hanno bisogno di attrito: di una forza che ostacoli il normale procedere dei personaggi all’interno delle vicende narrate. L’attrito è una buona analogia perché se di fondo la premessa di una storia può implicare che l’ipotetico protagonista sia ostacolato da un attrito volvente costante (per esempio: il protagonista incontra il padrone di casa, cui deve mesi di affitto arretrato, ogni volta che esce, e il lettore sa che prima o poi sarà sfrattato) la trama può riservargli occasionali situazioni di attrito radente, che costringono la storia in precise direzioni (dopo la morte del coniuge, il protagonista cade in una spirale depressiva che lo porta a [inserire scelta estrema propedeutica alla trama qui]).
(Per tutti quelli che invece le leggi di Coulomb le conoscevano, le mie scuse per aver appena messo delle parentesi quadre dentro alle parentesi tonde.)
Ci sono in particolare due tipi di storie prive di attrito manifesto che vanno evitate come la peste, se potete: quelle in cui il corso degli eventi è scontato e quelle in cui gli eventi sono una successione di cui il lettore deve prendere atto senza essere mai invitato a sperare o cercare di indovinare le prossime mosse dei personaggi.
Un esempio del primo tipo è una storia che ho recentemente rifiutato a un giovane autore con il quale ho tantissima voglia di lavorare, e che spero che presto mi manderà un altro soggetto: un ragazzo lavora come apprendista grafico, ma sogna di fare lo scultore. I datori di lavoro lo vogliono assumere a tempo indeterminato, ma lui vorrebbe invece iscriversi a un importante concorso di scultura. Non sa cosa fare. La storia finisce con il protagonista che praticamente dice: “Ora so cosa fare” ma non ci è dato sapere cosa decida. Poco male, perché si tratta di una scelta così ordinaria, così normale, che capita così tante volte nelle vite dei lettori, che non c’è molto motivo per leggere fino in fondo tutto un libro su questo argomento.
Disclaimer 1: Un giorno leggerò esattamente questa trama, ma declinata in un modo così originale ed emotivamente sconvolgente, con tali improvvise e impreviste rivelazioni sull’animo umano che ne sarò conquistato. Non era il caso di questo soggetto.
L’altro tipo di storia è quello in cui il susseguirsi degli eventi è stato deciso dall’autore in maniera apparentemente arbitraria e si procede dall’inizio alla fine prendendo atto di ogni successiva scena, senza che paia plausibile la ragione di quella specifica concatenazione degli eventi. Io le chiamo “storie a videogame” e hanno illustri e nobilissimi precedenti.
Disclaimer 2: Fa eccezione qualunque tipo di nonsense, flusso di coscienza narrativo, storia non sceneggiata scritta come esercizio di scrittura automatica o ciò che sceneggiate quando siete veramente tanto ubriachi.
Disclaimer 3: Non ho nessuna intenzione di essere ingiusto nei confronti del potenziale narrativo dei moderni videogame e so che non usano necessariamente lo storytelling “a livelli”. Giuro. Davvero.
Se proprio dovete scrivere una storia “a videogame”, la regola narrativa fondamentale è di dichiarare che si tratta di quel tipo di storia fin dal principio. Guardate Eiichirō Oda: il suo One Piece è allo stesso tempo un susseguirsi lineare di eventi che il lettore fatica a prevedere e una perfetta applicazione della regola del MacGuffin di Hitchcock (il tesoro dei pirati).
Forse l’autore che ha realizzato la storia più esemplare di questo tipo è Scott McCloud, che con un episodio di Zot! (casualmente pubblicato da BAO, wink wink!), Getting to 99, ha esemplificato nel modo migliore il bisogno di conflitto anche all’interno di una storia di cui la struttura sia interamente nota e palese fin dall’inizio.
Diciamo insomma che vogliamo raccontare la storia cui alludevo all’inizio: Il protagonista si sveglia determinato a presentare a una Casa editrice di fumetti la sua idea per una storia. Riesce ad alzarsi dal letto, perché nel suo mondo esiste l’attrito. Vediamo come si manifesta, oltre a permettergli di puntare efficacemente i gomiti sul materasso.
Lo scrittore inglese E.M. Forster, in un celebre libro sulla scrittura, Aspetti del romanzo (Garzanti) che io consulto con la frequenza con cui un curato di campagna consulta il breviario, ha scritto che due caratteristiche delle storie sono la fantasia e la profezia.
Della fantasia dice:
L’approccio più semplice a una definizione di un aspetto qualsiasi della narrativa è sempre considerare che cosa esige da parte del lettore: il romanzo richiede curiosità per la storia, interessi comuni e sentimento del valore verso i personaggi, intelligenza e memoria per l’intreccio. Che cosa esige invece da noi la fantasia? Che si paghi un supplemento. Ci obbliga a un processo di adattamento diverso da quello richiestoci dall’opera d’arte: vuole un adattamento ulteriore. Gli altri romanzieri dicono: “Ecco qualcosa che potrebbe accadere nella vostra vita”; lo scrittore fantastico ci dice: “Ecco qualcosa che a voi non potrebbe accadere. Devo pregiudizialmente domandarvi di accettare il mio libro nel suo insieme e, quindi, di accettare del mio libro alcune cose determinate.”
Forster fa presente che ci sono lettori che non accettano questa cosa, che con il fantastico hanno un pessimo rapporto, che hanno bisogno di realismo ancor più che di verosimiglianza, nelle storie che leggono, ma la fantasia è un ottimo modo per evitare un decorso narrativo banale. Proviamo:
Il protagonista si alza al mattino, con l’intenzione di presentare l’idea per una storia a una Casa editrice. Questa però, per non essere sommersa dai manoscritti degli aspiranti autori, accetta solo proposte consegnate a mano, e si trova su un altro pianeta. I soldi per un passaggio a bordo di un mercantile diretto su quel pianeta non sono un problema, anche se dovrebbe spenderli per l’affitto (attrito volvente: la quotidiana difficoltà della vita), ma quel pianeta ha tagliato i ponti diplomatici con quello del protagonista in seguito a una guerra di secoli prima, e quindi se ci andasse sarebbe arrestato immediatamente. Non gli resta che arruolarsi online nella fanteria spaziale di quel pianeta e prepararsi a partire in clandestinità, perché dall’istante in cui la sua iscrizione sarà protocollata, sarà automaticamente un nemico del proprio pianeta e dovrà sfuggire all’arresto (attrito radente: imprevisti da superare).
Già meglio, vero?
Forster dice che le storie di profezia sono, invece, quelle in cui l’esplorazione dei sentimenti prende il sopravvento, la rivelazione è più importante della scoperta, la spiritualità è più importante della fattualità. Se devo pensare a un fumetto mi viene in mente I Kill Giants, di Joe Kelly e JM Ken Niimura, che è nel catalogo BAO fin dal 2010: Barbara è una ragazzina che dice a tutti di avere in borsa il mitico martello Coveleski, capace di distruggere i giganti che potrebbero attaccare la città. Per metà della storia il lettore si domanda se Barbara davvero abbia questo potere, o se stia solamente gestendo il trauma di una difficile situazione familiare. L’esplorazione dei suoi sentimenti attraverso il modo in cui reagisce a ciò che le succede è così magistrale che gli elementi realistici dell’ambientazione sfumano letteralmente davanti ai nostri occhi, così che quando i giganti si manifestano smettiamo di domandarci se siano reali e tifiamo semplicemente per Barbara, perché vinca la battaglia che le è vitale per essere nuovamente serena.
Per restare nel nostro esempio di prima:
Il protagonista si alza un mattino determinato ad andare a presentare una storia a una Casa editrice. Stacca il cavo del caricabatterie dallo sterno, si lava, si veste ed esce. Nato con una grave insufficienza di capacità polmonare, nel suo torace è inserito un apparecchio che espande e contrae i suoi polmoni in modo corretto. La batteria del mantice artificiale ha la durata di quella di un moderno cellulare, e la storia procede con l’icona del livello di carica all’inizio di ogni capitolo. Da quando gli è successo di rischiare di morire perché un blackout a fine giornata gli ha impedito di collegarsi a una presa elettrica o di tornare a casa per collegarsi alla batteria d’emergenza, vive ogni giorno con la gioiosa rassegnazione di chi potrebbe star gustando le proprie ultime ore di vita. Proporre quella storia all’editore sarebbe il coronamento di un sogno, ma in realtà non gli importa se ce la farà o meno: sono le piccole gioie, i gesti quotidiani, la condivisione della propria condizione di essere umano tra altri umani, a renderlo felice, ogni giorno.
La storia la intitoleremo proprio “Mantice”, un po’ per l’apparecchio che la caratterizza, un po’ perché le emozioni che il protagonista prova ravvivano ogni giorno in lui il fuoco della passione per la vita.
Ecco, il consiglio è questo. Le storie contengono due classi di elementi narrativi: gli esseri umani e tutto il resto. Gli esseri umani devono interagire tra di loro e con tutto il resto. Le storie possono avere ogni tipo di struttura, e possono funzionare anche se dotate di strutture che il buonsenso editoriale di solito considera inadatte, inefficaci, poco incisive. Sta a voi dimostrare che si possono creare storie bellissime con premesse umili, o improbabili. Però comunque voi costruiate una storia c’è un elemento del progetto che non potete dimenticare, perché non lo decidete voi: il lettore alla fine della storia mette un filtro, come un setaccio, per lasciare che gli eventi ne fuoriescano liberamente e trattenere qualcosa tra le maglie del filtro. Cosa sia quel qualcosa lo decidete voi, è ciò che per attrito si stacca dalla struttura della storia in determinati punti e viene via con gli eventi, fino alla fine: una paura che all’inizio non c’era, la dimostrazione del coraggio di un determinato personaggio, una presa di coscienza inattesa, la dimostrazione tenace di un amore minacciato dagli eventi… sta a voi. Ma se non c’è attrito non c’è questo spostamento di sedimenti che diventano la ricchezza per il lettore che vi ha seguiti fin lì, e spesso non c’è motivo, o non c’è proprio modo, di leggere la storia fino alla fine.
Una storia deve fare male. A voi, ai suoi protagonisti o al lettore. Ma se fa male a due su tre siete già sulla buona strada. Se non vi fidate di me, lo dice anche Stewie Griffin.
15 commenti su “Carta vetrata – Un umile consiglio per scrivere le storie”
Post molto interessante. Rielabora concetti piuttosto noti – conflitto, sospensione dell’incredulità, tema – in chiave diversa, se vogliamo più “fresca”. Ed è bello che si spenda del tempo per suggerire a potenziali autori gli strumenti da utilizzare (anche se io aggiungerei: fate un corso serio, che il “mestiere” richiede basi solide!). Peccato solo che poi uno si sbatte per mesi per presentare storia e disegni e la risposta è: “da quanto abbiamo visto non ci interessa”. Così, laconico, senza un minimo di spiegazione – anche due parole in croce – che possa aiutare a capire gli errori commessi. Vabbè, non si può avere tutto nella vita, no? W Bao che continua a pubblicare bei fumetti!
Sai, non so se tu ti riferisca a qualcosa che hai mandato a noi, ma tieni presente che una Casa editrice non è una scuola, e ha come fine ultimo pubblicare i libri. Se in un lavoro valutato non si ravvisano le qualità che di solito quell’editore cerca, spendere del tempo per spiegare le motivazioni è antieconomico. Noi riceviamo cinquanta proposte a settimana. Se avessimo più persone deputate alla valutazione la qualità del giudizio scenderebbe. E’ un processo di trial and error, e come tale va preso: mai abbattersi, se si crede nel proprio valore riprovare, con un’altra storia. 🙂
Domanda: Ho un soggetto in cui credo molto e sto cercando un disegnatore per realizzarlo, non credo però che sia adatto alla collana I tipi di Bao. Lo valutereste lo stesso?
Il modo più semplice per saperlo è mandarcene una sintesi, non più lunga di una cartella di testo, per chiederci cosa ne pensiamo. Scrivi a [email protected] alla mia attenzione.
Tutto giusto e condivisibile. La casa editrice non è una scuola…. poi però la casa editrice scrive un post – ripeto apprezzabilissimo – di tipo “didattico” (o sbaglio?) quindi uno si domanda: ma se trovano il tempo di darci delle dritte per presentare progetti, allora, magari possono pure trovarlo per due righe di spiegazione su una bocciatura (del tutto legittima, ci mancherebbe). Questo fuor di polemica e a prescindere dal mio caso personale, perché se è verissimo che è un processo “trial and error” è vero pure – e l’esperienza me lo ha confermato – che a volte basta una dritta per indirizzare un autore sulla strada giusta.
Ti assicuro che in realtà è vero il contrario: mi prendo il tempo per questo accenno di didattica PROPRIO perché non lo abbiamo per farlo caso per caso. Grazie comunque delle belle parole e delle critiche costruttive!
Ciao Michele! Nell’articolo citi “Aspetti del Romanzo” di Forster. Parer mio, penso che “Story” di Robert McKee sia il manuale di narrazione migliore sulla piazza. Poi magari dipende dal tipo di approccio che ogni persona ha riguardo all’argomento.
Bell’articolo comunque 😀
Story è molto legato al linguaggio narrativo del cinema, è un libro che abbiamo tutti ma che trovo difficile adattare agli esempi che mi servono nello specifico del lavoro che faccio. Forster scrive solamente sul romanzo. Ogni strumento ha utilità specifiche. Grazie!
Ho appena girato questo post ai miei colleghi di “improvvisazione teatrale”. Un mondo che, secondo me solo in apparenza distante, ha tantissime caratteristiche in comune con questa parte di fumetto (mi riferisco a quell’urgenza di raccontare una storia che abbia attrito).
Grazie!
Grazie a te, Francesco!
Salve,
bel post, come il precendente, e davvero interessante perchè accosta il tecnico e la narrazione , predendo come spunto la realtà e la “fisica” essendo io un ingegnere, l’ho trovato molto stimolante. E per me molto chiaro. 😀
(Non vorrei fare il puntoglioso, ma , vado a memoria, le leggi di Coulomb non sono sull’attrito ma sull’intensità della forza che esercitano le due cariche elletriche degli atomi [non ricordo se solo dell’elettrone]. Questo però non inficia sulla qualità, alta, del post).
Saluti
Giulio
Grazie!
Stando alle mie fonti Coulomb ha “legiferato” anche sull’attrito, benché le leggi sulla carica elettrica siano più importanti ai fini della sua biografia. Sai di avere inferto uno schiaffo morale ai fisici, vero, perché un ingegnere ha difeso le loro leggi? 🙂 (Sono figlio di ingegnere!)
Prego. E non ci avevo pensato di aver difeso le loro leggi… Si arrabbieranno, i fisici? 😉
Sono andato a memoria su qualche ricordo di Fisica 2, quindi se ci fosse qualche fisico tra i lettori e in ascolto, che possa darci una mano…
Ecco da dove venivano gli approcci tecnici e con molti numeri dei post: un buon sangue non mente . (se posso permettermi, tipo di ingegnere: meccanico, elettronico , ecc ?)
Ciao & buon lavoro
Giulio
Chimico. Penso il fumetto stechiometricamente e cerco di limitare la dispersione nelle ossidoriduzioni tra elementi di storia e di disegno. 🙂
In base ai volumi che ho di Bao, ritengo che il rapporto tra le reazioni tra la storia e il disegno sia perfettamente bilanciato. 😉
(io, meccanico, di I° livello)