Il fumetto salverà se stesso
- 21 Febbraio 2017
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Tutti noi che facciamo i mestieri del Fumetto abbiamo feticci segreti, passioni inspiegabili, piccole manie, guilty pleasure e innocenti perversioni che sono declinazioni della nostra passione diventata professione.
A me piacciono le storie sull’inchiostro.
L’inchiostro di uno dei tatuaggi di Zerocalcare, per esempio, che dice “Comics are gonna break your heart”*, una frase che in Hicksville Dylan Horrocks attribuisce a Jack Kirby.**
Ma anche l’inchiostro di Jeff Smith, che una volta, in visita al Billy Ireland Cartoon Library and Museum, si è visto regalare alcuni pennelli e boccette di inchiostro appartenuti ad Hal Foster e da allora mescola un po’ di quel prezioso pigmento nero a quello che usa lui di solito (“to channel some of Hal’s juju” mi raccontò, come se fosse l’ingrediente segreto di una formula magica).
Oppure l’inchiostro preferito di Toni Bruno, tagliato con quello per i tatuaggi dei cani di quando lavorava al canile, per un misto di affinità spirituale, senso di appartenenza e – dice – favolosa indelebilità.
O il “Nero Tex Fumetto”, l’inchiostro (sviluppato apposta per la Bonelli cinquant’anni fa e da allora brevettato dal fabbricante) con il quale una volta Paolo, il tecnico di macchina di una delle tipografie partner di BAO, Aquattro di Chivasso, nel torinese, salvò la tiratura di un nostro libro, le cui sfumature a carboncino non ne volevano sapere di venire stampate a dovere, con il fusto dell’altra marca.
Eppure per questo post ho scelto una foto d’epoca dei serbatoi del Pelikan 4001, nella vecchia fabbrica alla periferia di Hannover. Il 4001 è un tradizionale, amatissimo inchiostro da calligrafia.
Perché il Fumetto, vi piaccia o no, è scrittura.
Badate, non sto dicendo che la parte testuale sia l’identità del Fumetto. Sto proprio dicendo che il Fumetto, nel suo complesso, è scrittura. E per questo ha dignità pari a ciò che si considera “scrittura” nell’accezione tradizionale.
Emile Bravo, uno degli autori che BAO ha pubblicato per primi, e tra quelli che hanno più titoli nel nostro catalogo, una volta, mentre lo guardavamo dedicare per il pubblico le copie del suo premiatissimo Mia mamma (è in America, ha conosciuto Bufalo Bill), ci disse che lui disegnava sempre lo stesso soggetto, nelle dediche, per ribadire silenziosamente che non era venuto per decorare un certo numero di copie del suo libro, ma per incontrare un certo numero di lettori. “Il fumetto è calligrafia”, ci diceva. “Da piccoli sappiamo tutti disegnare, ma spesso disimpariamo, perché gli adulti ci spronano a scrivere, attività che considerano matura ed elevata, e a smettere di disegnare, pratica che considerano infantile, puerile.” Sosteneva che era per via del fatto che quasi tutti dimentichiamo di aver saputo disegnare che guardiamo chi disegna davanti ai nostri occhi come se si trattasse di un prestigiatore. Mia mamma vinse il Deutscher Jugendilteraturpreis, la più alta onorificenza tedesca per la letteratura per l’infanzia, un premio solitamente assegnato a opere in prosa.
Insomma, ci hanno abituati che se una cosa è disegnata deve valere meno di una cosa solamente scritta. Come se le immagini fossero un ausilio per la comprensione, qualcosa che serve a menti semplici, incapaci di evocarne semplicemente leggendo le parole. Come il foglio per le procedure di emergenza a bordo degli aerei. Qualcosa che non deve poter lasciare spazio a equivoci. O alla fantasia.
Pensate come doveva sentirsi frustrato Will Eisner, che aveva sempre saputo quanto valesse il Fumetto come mezzo di espressione, al punto che era stato un pioniere del diritto d’autore, e in assoluto il primo autore a ottenere di tenere per sé i diritti di un personaggio (The Spirit) che aveva creato per gli inserti a fumetti dei quotidiani. Nel 1978, quando aveva finito Contratto con Dio, l’idea di sentire il suo lavoro etichettato come una storia per bambini scemi che avevano bisogno delle figure per capire la trama lo doveva irritare non poco, così si è inventato una definizione cui attribuiva abbastanza gravitas da far rispettare il suo lavoro: graphic novel. Una parte del mondo ha abbracciato quella definizione, dopo essersela rigirata in bocca per circa un decennio, per quello che è: un formato editoriale di storia a fumetti. Un’altra parte… non l’ha presa molto bene.
Una digressione: nel 1969 gli Who pubblicarono un doppio vinile intitolato Tommy. Tutte le canzoni erano parte dello svolgimento di un tema comune. È probabile che conosciate la traccia più nota del disco, Pinball Wizard, e il fatto che la conosciate anche se non è stata la sigla d’apertura di nessuna serie di CSI è segno dell’importanza di quel disco che, per la sua natura di omogeneità tematica gli Who definirono un concept album. Che io sappia, nessuno tirò loro dei sanpietrini dicendo Chiamatelo disco, non quelle definizioni da fighetti che si vergognano di fare musica!
Ora, mentre noi, qui dentro al mondo del Fumetto litighiamo per decidere come dobbiamo chiamare i vari tipi di storie, all’esterno ancora ci guardano come se fossimo i suddetti bambini lenti di comprendonio.
Un paio d’anni fa un importante sito di vendita online ci propose di investire in un grande banner pubblicitario nella loro homepage dei libri. Un banner above the fold, definizione mutuata dal mondo dei quotidiani per indicare uno spazio pubblicitario molto visibile perché sta “sopra la piega” (dei giornali). Per un paio di settimane, costava come un paio di automobili.
Io avrei potuto spiegare che non abbiamo un budget pubblicitario di quell’entità per due anni, figuriamoci per due settimane, ma mi limitai a far notare che in quel periodo, secondo le nostre stime, circa il 60% dei lettori di narrativa in Italia considerava ancora impensabile leggere un libro a fumetti. La percentuale, secondo me, era scesa di molto dagli anni precedenti, ma investire in quel banner pubblicitario sarebbe significato che comunque sei persone su dieci tra quelle che lo avrebbero visto avrebbero decretato mentalmente che non valeva la penna passarci sopra il cursore e cliccare.
Il nemico da battere è questo.
Possiamo trascorrere altri decenni a dibattere sulla definizione di graphic novel, consumare inutili scissioni interne, convocare congressi e invocare primarie del Fumetto e intanto consegnare il Paese nelle mani dei lettori di Fabio Volo, oppure possiamo usare il graphic novel come il cavallo di Troia che è, e portare sotto agli occhi di un prezioso bacino di lettori la forma più eclettica che ci sia di narrazione a fumetti, e abituare legioni di niubbi alla nostra abituale dieta culturale, salvando probabilmente così un comparto, editoriale e culturale, che per troppo tempo ha creduto di poter prosperare in una nicchia che diventava ogni anno più piccola.
Un paio di settimane fa ero a pranzo con Giancarlo De Cataldo, magistrato e scrittore, e si parlava di storie. Lui constatava come fosse difficile capire in che direzione puntare, in un mondo in cui coesistevano cose scritte divinamente, come The Wire, la serie TV creata da David Simon, e [inserire qui titolo di insulsa fiction poliziesca]. “Se provi a scrivere The Wire ti alieni una grossa fetta di pubblico, che troverà il tuo lavoro troppo alto e pretenzioso, ma se provi a scrivere [inserire qui titolo di insulsa fiction poliziesca] dovrai banalizzare le tue idee e le tue intenzioni.” Il dilemma, nella nostra conversazione, era pertinente ed esposto in maniera acuta, ma mi sono permesso di suggerire che se gli autori di [inserire qui titolo di insulsa fiction poliziesca] e di tutti i suoi epigoni provassero semplicemente a non banalizzare il linguaggio, piano piano darebbero agli spettatori gli strumenti critici per capire The Wire.
Ecco, nel mondo del Fumetto è il contrario: un sacco di nuovi lettori si stanno avvicinando alla forma più indisciplinata, complessa e variegata per stili visuali e narrativi del Fumetto, cioè il romanzo grafico, e dopo il primo contatto ne vogliono ancora. Certo, potranno tornare in libreria e cercare nei pressi del primo libro a fumetti che li ha folgorati, ma un certo numero di loro prima o poi finirà anche in fumetteria e in edicola. E il mondo del Fumetto è ricchissimo di prodotti solo formalmente meno complessi e impegnativi la cui qualità narrativa è però altissima. I prodotti a fumetti seriali in Italia sono BEN più soddisfacenti e intelligenti di qualunque [inserire qui titolo di insulsa fiction poliziesca].
Ecco perché credo che il futuro parta dalle librerie, ma che non finirà lì. Ecco perché ritengo arricchente e fondamentale l’ibridazione dei generi, dei formati, la contaminazione tra il gusto dei lettori già fidelizzati e quello – nascente – dei nuovi lettori. E per ogni volta in cui qualcuno in televisione cercherà di affibbiare definizioni astruse a un libro a fumetti proprio per non dire la parola “fumetti” noi la diremo con forza e con dignità, perché ora sappiamo di poter portare al mondo della cultura qualcosa di degno, di vitale e di insostituibile (inutile parlare del mondo dell’intrattenimento puro, nel quale la qualità dei fumetti – di praticamente tutti i fumetti – svetta sopra buona parte dell’offerta generalista, stampata o audiovisiva). Basta che cominciamo tutti a usare il tempo che finora abbiamo dedicato a litigare sulle definizioni per fare proselitismo verso l’esterno. E prossimamente dedicherò un post proprio a cosa possono fare tutti quelli che di Fumetto vivono o fruiscono per contribuire all’ampliamento del lettorato.
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* In realtà Zerocalcare si è addormentato e non ha potuto fermare la tatuatrice che, andando a memoria, ha scritto “Comics are gonna break MY heart”, una frase meno storicamente corretta ma molto autoflagellante e, quindi, perfetta per il soggetto che se l’è fatta scrivere addosso. 🙂
** Quando abbiamo incontrato Dylan al TCBF del 2012, se ben ricordo, Zerocalcare mi chiese di chiedergli se la frase fosse vera, perché non voleva tatuarsi un falso storico. Dylan ci ha confermato che Kirby l’avrebbe detta all’illustratore James Romberger, che gli aveva mostrato il suo portfolio. Conoscendo il lavoro di quest’ultimo, pieno di passione ma assolutamente inadatto al fumetto mainstream, l’ho trovata perfettamente plausibile.