La sera di giovedì scorso è stata surreale, per me: in primis ero ufficialmente entrato nel weekend, perché il giorno dopo sarebbe stato di festa. Quella cosa di essere a casa alle venti era già perturbante, per me. Poi c’erano i notiziari: stentavo a credere ai miei occhi. Quando mai ci era successo di apparire la stessa sera al TG1, al TG2, al TG5 e al TG di La7? Ci ho messo i primi due solo per smettere di essere nervoso.
Sì, perché per una volta non avevamo nessuna voglia di far parlare di noi. Zerocalcare aveva fatto un post sulla sua pagina Facebook per annunciare che una persona di cui aveva raccontato in Kobane Calling era morta, in combattimento, non lontano da Raqqa, in Siria. Ayse Deniz Karacagil, detta Cappuccio Rosso. La sua storia è tragica, ma piena di dignità, e se in Italia la si conosce, è perché Michele ne ha parlato nel suo libro.
La giornata di giovedì è trascorsa a declinare richieste di intervista, di commento, di disegni, di prese di posizione. A tutti abbiamo detto: La notizia è che l’autore ha fatto un post su una cosa che gli sta a cuore. Non ci sembra il caso di commentare oltre. Piano piano, abbiamo convinto tutti che fosse meglio così.
La sera, però, mi sono trovato a guardare i telegiornali. Forse in virtù del fatto che le redazioni avevano immagini di Ayse, non si trattava solamente di servizi su Zerocalcare. Tutti però erano concordi nel far notare che era stato lui a tirare Ayse fuori dai numeri, dalla massa informe e indefinita delle persone che protestano, e combattono, e fanno scelte di vita estreme in quella parte di mondo.
Siccome avevamo passato la giornata all’insegna del nervosismo, determinati a non sfruttare una notizia tragica per vendere qualche copia di un libro, e a non permettere a nessuno di ricamare sulla storia, facendo pensare al pubblico che ci stessimo speculando, quella sera gli ho scritto a lungo per fargli notare che però, forse, qualcosa di buono lo avevamo fatto. Perché tutte le volte che un libro fa la differenza tra la consapevolezza e l’indifferenza, quando è capace di costringere la gente a non voltarsi dall’altra parte per non guardare i problemi, mi ricordo perché continuiamo a lavorare e lottare per questo mestiere che sembra così anacronistico, incapace di competere con media più veloci, più ficcanti, più spettacolari. Perché c’è bisogno di qualcosa che resta, per quando la gente decide di voler capire le cose. È importante che ci siano voci oneste che parlano di come si combatte ogni ingiustizia, ogni oscurantismo, ogni sopruso.
Ancora stento a credere che un libro così importante, che ha colpito così profondamente le coscienze dei lettori, sia qualcosa che abbiamo fatto noi. Che sia un libro a fumetti, invece, non mi stupisce per niente. Da queste parti (e non siamo i soli) abbiamo sempre creduto nel potere della franchezza della narrazione a fumetti, della ricchezza del suo linguaggio. Che poi, per una volta, un libro necessario sia anche un libro di successo, non guasta affatto, ma come ha sempre detto Cesare De Michelis, il presidente della Marsilio: “È più bello vendere i libri che si fanno che fare i libri che si vendono.”
Sono finite le fiere di primavera, quindi torna l’appuntamento regolare con il blog. Grazie della pazienza in queste settimane di silenzio.