You’ve got to fight for your (foreign) right to party
- 14 Maggio 2014
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Il mercato dei diritti stranieri nel fumetto è un universo a parte, governato da regole che si imparano con anni di esperienza, il che dà a chi se ne occupa il tempo di sviluppare un’arte della diplomazia tutta speciale, che sarebbe difficile insegnare in modo organico e logico.
Di base, quando si compra la licenza di un titolo straniero le cose vanno più o meno come quando si fa una proposta di contratto a un autore nostrano: si specificano la tiratura prevista (al di sotto della quale, una volta stipulato il contratto, non si può scendere), il prezzo di vendita, la veste editoriale, il periodo di uscita (o la cadenza, per una serie) e si offre un anticipo sulle royalties del progetto. Se si vogliono stampare duemila copie di un libro da dieci euro e le royalties sono all’8%, l’anticipo dovrà essere una parte di
(10 x 2000) x 8% = 1600 euro.
Quei milleseicento euro sarebbero la cifra dovuta in caso di vendita dell’intera tiratura, quindi il bravo acquirente trova il modo di pagare meno che può di quella cifra. Diciamo che riuscire a pagare il 60% di quella cifra sarebbe già un risultato soddisfacente.
Per fare leva su questo parametro, che l’editore straniero dovrà ripartire con gli autori, se ne hanno diritto, si può per esempio non obiettare al prezzo degli impianti di stampa.
Questo è un balzello che con gli anni è diventato odioso: si tratta di un retaggio del tempo in cui l’editore straniero prestava le enormi, ingombranti, delicate pellicole di stampa per consentire l’edizione in un’altra lingua, e giustamente si faceva pagare per il servizio. Ora la maggior parte degli autori si colora, lettera, impagina i libri da sola e quindi il fatto che la casa editrice chieda ai licenziatari esteri una tariffa (che non divide con gli autori stessi) per fornire quegli impianti è una cosa sempre più anacronistica e che a mio giudizio porterà prima o poi a un confronto aspro tra autori e i loro editori originali.
Il prezzo degli impianti, in un mercato come quello italiano nel quale buona parte delle tirature è bassa e quindi ha un ricarico dei costi fissi che incide molto sul prezzo finale di vendita dei volumi, è un argomento spinoso.
Se qualcuno avesse un’attività editoriale in più paesi, per esempio, potrebbe comprare la licenza di un titolo per più mercati e pagare gli impianti una sola volta, con un notevole beneficio economico per sé e anche per chi gli vende i diritti esteri, che in un sol colpo avrebbe “coperto” numerose caselle geografiche senza dover trovare un editore per ogni paese. Non ci sarebbe quasi più gara, se esistesse un operatore editoriale così.
(Ciao, sono quasi.)
Date per scontato che se un colosso editoriale non ha certi titoli stranieri, che sono gestiti da altri editori più piccoli, nel 90% dei casi è perché non li vuole. Altrimenti li avrebbe. Non tutto ciò che viene acquisito dall’estero è commercialmente sensato per il nostro mercato, ma è spesso un bene che venga pubblicato comunque: in primo luogo perché non è quasi mai possibile capire a priori cosa funzionerà e cosa no, e poi la diversità è una ricchezza da proteggere, anche se è palese che si pubblica troppo e con poco criterio, in Italia, e questo è anche uno dei fattori che rendono cronica la crisi dell’editoria (e non parlo solo di fumetti).
Detto questo, il modo migliore per approcciare una licenza straniera è convincere chi la può concedere che dietro alla richiesta non c’è solo un’offerta economica solida e convincente (suggerimento: una promessa di tiratura più alta della media fa più impressione di un anticipo immotivatamente alto), ma anche un piano di marketing concreto, supportato dall’azione di una buona squadra commerciale e di un solido ufficio stampa. Il rapporto diretto con gli autori funziona, è un elemento a favore del richiedente, ma è importante non scavalcare la gerarchia, sia che si stia trattando con un dipendente dell’editore straniero addetto ai diritti esteri sia che si parli con un agente, che ha ancora di più la responsabilità di proteggere il proprio cliente (e i suoi autori) da indebite intrusioni da parte di entità straniere.
Con il tempo, se si è lavorato bene con un libro, è normale che all’editore italiano che ha fatto un buon lavoro venga dato il diritto di fare per primo l’offerta per i lavori successivi dello stesso autore, ma non esistono esclusive aprioristiche.
Annunciare tre o quattro titoli di un certo editore, che so, americano, non vuol dire aver comprato l’esclusiva sul suo catalogo. Spesso i contratti vengono fatti volume per volume, le master license (accordi-quadro per un’intera linea editoriale) sono molto rare nel nostro mercato. Più diversificato è il catalogo dell’editore straniero, meno è probabile che tutti i suoi titoli in Italia vengano tradotti dalla stessa Casa editrice. Tranne nel caso in cui ci fosse la mega entità onnivora di cui sopra, che per ovvie esigenze strutturali dovrebbe cominciare ad alimentarsi con tale frequenza da non poter più andare troppo per il sottile.
Va tenuto presente che in generale un titolo importato costa meno di un titolo creato in Italia, se agli autori italiani viene riconosciuto un trattamento equo e onesto. Ovviamente c’è un sacco di gente che pagherebbe pur di pubblicare, quindi chiedere loro “solo” di realizzare un libro gratis è quasi fare loro un favore (sono ironico, casomai non lo si capisse al volo) e si può costruire un catalogo affrontando quasi solo i costi di stampa, ma anche questa operazione rientra nel novero dei libri che alimentano la diversità culturale dell’offerta al pubblico, ma che raramente generano una qualche forma di profitto. Un giusto equilibrio tra prodotto originale e licenze straniere è un modello virtuoso, difficile da perseguire e mantenere, ma che rende profondamente interessante un catalogo editoriale, secondo me. Esso è raggiungibile con le seguenti fasi:
- Ci si fa notare sul mercato con titoli stranieri di alto profilo (il che impone inizialmente di fare offerte più alte di quanto sarebbe prudente fare, perché essenzialmente chitticonosceatté?)
- Si realizza poco prodotto italiano, ma di alta qualità, che si integri bene con l’offerta importata.
- Stabilito un rapporto di fiducia con i partner strategici all’estero si comincia a spendere un po’ di meno per acquisire le licenze, ma si accetta sempre più spesso di stipulare accordi-quadro per più volumi di una serie o per più titoli insieme.
- Si produce più materiale italiano perché a questo punto la reputazione del marchio è tale da generare fiducia tanto nei lettori quanto negli autori, che sentono di avere interesse a pubblicare con quell’azienda al di là del mero profilo economico.
- Se ci si è affermati a sufficienza sul mercato nazionale si consegue l’autorevolezza per vendere all’estero i diritti delle proprie opere originali (cosa che sarà oggetto di un post a parte).
Se in azienda si parlano almeno tre lingue, siete a posto. Non solo perché farete meno fatica a farvi capire e a trasmettere la serietà delle vostre intenzioni, ma anche perché si creerà più fiducia nei confronti del rigore editoriale che applicherete all’edizione tradotta del libro che volete comprare.
La qualità in Italia sta aumentando, da qualche anno a questa parte, forse anche perché qualcuno ha alzato l’asticella, costringendo un po’ tutti a saltare più in alto. Fa bene vedere libri ben fatti, ben tradotti, ben adattati alle esigenze del nostro pubblico. Chiunque sia a pubblicarli, purché lo faccia bene.
(Ma che cosa c’è in un piano marketing? Ne parleremo presto.)
Un commento su “You’ve got to fight for your (foreign) right to party”
Illuminante, come sempre…