Foreign Rights – Parte 2 – Selling Comics by the pound
- 7 Marzo 2017
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Quando scrivevo storie di Pikappa, una dozzina di anni fa, c’era una regola redazionale che mi tornava molto utile narrativamente: le sceneggiature erano sempre per quarantotto pagine, ma a pagina ventiquattro andava inserita una cesura narrativa, perché in alcuni paesi scandinavi quelle storie venivano pubblicate in due parti e ci voleva un cliffhanger minore per indicare la fine della prima parte. Era molto comodo, per chi scriveva, sapere di avere una sorta di baricentro narrativo; mi aiutava a capire se c’era equilibrio di azione nelle due metà delle mie storie. Certo, la ragione era meramente commerciale, perché se le storie non si fossero potute smontare in due capitoli certi mercati non le avrebbero acquistate, ma era una richiesta molto semplice da esaudire, per me.
Anni dopo, il desiderio di rendere ogni storia potenzialmente appetibile per il mercato globale ha portato all’istituzione di parametri narrativi oggettivamente più restrittivi in termini di lunghezza delle storie e temi che si potevano trattare, ma non è mai stato un mio problema: prima di diventare un creativo che si doveva preoccupare della burocrazia del Fumetto, ho abbandonato la scrittura per diventare un burocrate creativo. E infatti, eccomi qua.
Se una multinazionale dell’intrattenimento è costretta a fare fin troppa attenzione a non precludersi nessuno dei mercati sui quali si trova a operare, la maggior parte delle Case editrici di fumetti italiane si pone troppo poco il problema, e spesso quando decide di pubblicare materiale originale non si rende conto di realizzare storie troppo italocentriche, difficili se non impossibili da esportare.
Stando a dati AIE di un paio di anni fa, in Italia il 60% dei libri che si pubblicano sono importati, e il restante 40% è di autori italiani. Se si entra in una fumetteria è probabile che la percentuale sia ancora più sfavorevole. Produrre un fumetto costa più tempo, più denaro e richiede più competenze rispetto a un titolo importato dall’estero, e fino a qualche anno fa – con alcune notevoli eccezioni – era molto probabile che un titolo italiano vendesse meno di uno straniero.
Digressione: se trovi un autore disposto a pubblicare gratis, forse un titolo italiano costa meno di un titolo importato. Ma questo è un blog serio, e mi piace pensare che tutti i colleghi lo siano, quindi non prenderò nemmeno in considerazione questa possibilità.
Qui in BAO siamo strenui fautori della politica di scegliere che titoli pubblicare in base al gusto personale e, anzi, abbiamo fatto del nostro gusto di lettori una filosofia editoriale, ma ci poniamo sempre il problema di cercare di evitare i progetti impossibili da spiegare all’estero. Tematiche troppo legate al tessuto sociale italiano, o storie interamente basate su giochi di parole difficili da tradurre con efficacia sono i casi più evidenti di storie che ci lasciano perplessi quando ci vengono proposte. La motivazione è pratica: quando pubblichiamo un libro non abbiamo la certezza che andrà bene. Questo significa che non siamo certi che copriremo tutte le spese necessarie per realizzare il libro, o che l’autore vedrà royalties in aggiunta all’anticipo sui diritti che gli avremo dato. Pertanto, quando possibile, cerchiamo di finanziare progetti che potenzialmente possano essere venduti anche su altri mercati.
Le difficoltà non sono solamente legate al tema o allo stile, ovviamente: il mercato francese è saturo di uscite (oltre seimila novità l’anno) e quello americano è composto al 96,4% da titoli prodotti negli USA, mentre le importazioni ammontano solo al 3,6% residuo. È quindi molto difficile vendere un’opera su uno di questi mercati. Tuttavia, se un libro vale, e si riesce a portarlo nel modo giusto sotto al naso degli editori internazionali, non è impossibile.
In Italia solo il 15% delle Case editrici (in generale, non solo di fumetti) è dotato di un ufficio diritti internazionali. Questo vuol dire che, per le motivazioni più disparate, oltre otto editori su dieci rinunciano a cercare di vendere le opere che posseggono (o rappresentano per conto degli autori) ad altri mercati. Ma qual è lo sforzo necessario per accedere ai mercati esteri? Vediamolo nel dettaglio.
Per prima cosa è fondamentale fare autocritica: la cultura italiana è ammirata, ma non sempre di immediato interesse per il resto del mondo. Un graphic novel sulla romantica e piratesca figura del mozzarellista, per esempio, potrebbe anche avvincere un lettore straniero, ma la storia della Giostra del Saracino di Arezzo nei secoli, magari, meno. Parimenti, la nostra amata lingua è meno parlata (e letta) nel mondo di quanto si pensi. Quindi è necessario stanziare i fondi necessari a tradurre e letterare in inglese i titoli che si vogliono esportare. La mia ormai quasi ventennale esperienza mi induce a dire che i mercati di lingua inglese saranno comunque tra gli ultimi a interessarsi, ma la loro lingua è così diffusa da rendere inevitabile la scelta. È poi il caso di dotarsi di un sito dedicato, dove non solo siano presenti schede sintetiche dei titoli disponibili, ma anche un elenco aggiornato di editori stranieri che hanno già comprato i diritti di un certo titolo (o, più in generale, dei titoli di quella Casa editrice). Il motivo è semplice: se altri ci hanno creduto, è più facile decidere di fare altrettanto.
Diventa a questo punto essenziale avere in ufficio una risorsa umana dedicata alla costruzione di una mailing list di editori, scout e agenti, cui mandare periodiche newsletter che parlano di uno specifico titolo che si desidera vendere. Rendere disponibili i PDF in inglese (e in italiano, perché per esempio ci sono editori di lingua spagnola e portoghese che lo leggono più volentieri) e offrirsi di spedire copie stampate dei libri per la valutazione sono pratiche utili a rendere più interessanti i titoli da vendere.
Le fiere sono un altro aspetto fondamentale: Angoulême a gennaio, Bologna ad aprile e Francoforte a ottobre sono i tre momenti-cardine per la vendita e l’acquisizione delle licenze editoriali, ed è importante essere pronti e presenti. Noi per anni ci siamo andati esclusivamente per comprare, e abbiamo notato l’inversione di tendenza quando, dopo aver allestito correttamente il nostro dipartimento Foreign Rights, le richieste di appuntamenti per vedere il nostro catalogo hanno cominciato ad arrivarci spontaneamente.
Tanto l’invio di newsletter tecniche quanto i pitch dal vivo alle fiere sono utili, ma non si tramutano quasi mai in vendite. Chi segue questa parte del lavoro nella Casa editrice deve fare un costante, meticoloso lavoro di follow-up, scrivendo per esempio a tutti coloro che ha incontrato dopo una fiera, riassumendo ciò di cui si è parlato, ma anche semplicemente rispondendo sempre a tutte le domande che una newsletter può generare.
Un venditore tende ad arrendersi dopo cinque tentativi, dicono numerosi studi. Ma l’80% delle vendite avviene dopo il settimo tentativo. Se vi arrendete, il vostro interlocutore penserà che in fondo non vi importasse molto di vendere la licenza per quel certo libro. Se perseverate, invece, sarà evidente che ci tenete, che conoscete bene tanto il vostro libro quanto il catalogo dell’editore cui state facendo la corte, e quindi sarà più probabile che – a prescindere che la risposta sia “lo compro” o “no grazie” – riceviate una reazione onesta, costruttiva e consapevole.
Digressione: Badate, non vi sto consigliando di assillare nessun editore. Si tratta di riprendere in modo cortese e non ossessivo il discorso a ogni occasione utile: se a gennaio avete presentato un titolo, prima di rivedervi ad aprile mandate un reminder, e se dopo aprile non c’è stata espressione di interesse all’acquisto mandate una copia fisica al vostro interlocutore con un biglietto che dice “Secondo me è perfetto per il tuo catalogo”. Cercate di non diventare mai, agli occhi di nessuno, un rompiballe. A nessuno piace un rompiballe. Io reagirei malissimo.
Se avete letto fin qui, vi starà venendo il sospetto che vendere i diritti stranieri di un fumetto non sia affatto facile, e avete ragione. Però c’è una motivazione molto forte per cui cercare di farlo: una Casa editrice che offre quella prospettiva a un suo autore è molto più appetibile di una che neanche ci prova. E il principale capitale di cui dispone un editore sono gli autori nel suo catalogo. E non quelli che sono passati di lì per il tempo di un libro, ma quelli che sono felici di farne parte e, al netto di altre collaborazioni, non hanno nessuna intenzione di andarsene. Quelle persone, che devolvono migliaia di ore alla realizzazione di un solo libro, meritano eccellenza. La scelta della carta è cura, la corretta comunicazione al pubblico è cura, un buon feeling con la stampa è cura. Saper entusiasmare non solo i singoli lettori, ma perfino altri editori è cura. Dimostrare di aver interiorizzato così bene il messaggio di un libro da saperlo tradurre a beneficio dei colleghi stranieri è tra le forme più alte di cura per un progetto editoriale.
E poi tutto quello che serve è un successo. Uno dei grandi paradossi del catalogo BAO è stato, per anni, il fatto che il nostro più grande successo, Zerocalcare, era considerato intraducibile dagli editori stranieri. A onor del vero dopo La profezia dell’armadillo il lavoro di Michele si è fatto via via sempre meno legato alla cultura popolare italiana, assumendo un respiro realmente classico e universale, ma ci è voluto Kobane Calling, perché il mondo editoriale si rendesse conto del potenziale. Nel 2016 quel libro è stato venduto in Francia, Spagna, Germania, Norvegia e Stati Uniti. La sola edizione straniera uscita finora è quella Francese, che in meno di tre mesi ha superato le ventimila copie vendute. Da quel momento, e non solo in Francia, gli editori si contendono gli altri titoli del suo catalogo. Questo ha aumentato l’attenzione verso il resto della nostra rights list e ora la nostra addetta ai Foreign Rights ha un bel daffare a rispondere alle mail degli editori che ci scrivono. L’ambizione, dopo aver venduto una dozzina di licenze nel 2016, è di dover assumere qualcuno che si occupi di questo dipartimento a tempo pieno entro il 2019.
Ho cominciato questo articolo raccontando di come il bisogno di globalizzare la narrazione rischi di danneggiare la creatività. Mentre scrivevo ho continuato a domandarmi se abbiamo mai consapevolmente chiesto a un nostro autore di fare o non fare qualcosa, narrativamente, per non alienare il possibile pubblico straniero. Poi però mi sono detto che proprio in questi giorni un editore americano ha pubblicato Il suono del mondo a memoria, quindi una storia sul suo stesso Paese, e che i libri perfetti sono quelli che si traducono senza difficoltà di adattamento culturale (il mio esempio preferito è Se una notte d’inverno un viaggiatore, di Italo Calvino. In qualunque lingua io lo abbia letto, l’ho sempre trovato intatto nelle intenzioni). La bussola da seguire è sempre quella dell’entusiasmo bruciante degli autori per le loro opere: ce ne dev’essere tanto da consentire loro di finire il libro senza disamorarsene, e un po’ d’avanzo per infettare i lettori italiani, e ancora un poco perché anche all’estero ci si renda conto di quanto è speciale quel libro. Forse a causa del fatto che il successo della Casa editrice per cui lavoro è dovuto in larga parte al passaparola positivo, non posso non concludere che il passaparola è la sola cosa che dobbiamo realmente ambire a globalizzare.
2 commenti su “Foreign Rights – Parte 2 – Selling Comics by the pound”
Interessante articolo, come sempre, solo vorrei dare una correzione etnica: l’usanza di avere un cliffhanger a metà di una storia non è una cosa di Disney e Pikappa, ma è una parte della struttura narrativa tradizionale.
In televisione si chiama punto di risoluzione apparente, un momento nel quale sembra risolversi il problema del capitolo ma si vede che non è vero, e serve per introdurre la pausa pubblicitaria normalmente più lunga (quella di metà episodio).
In cinema si chiama punto medio, ed è il momento nel quale il protagonista soffre la peggior sconfitta, dalla quale si deve riprendere per poter tornare alla carica con nuova motivazione. Oppure scopre che la ragazza che ama non lo sopporta o sta per sposare un altro (non vale solo per le storie d’azione).
Nel Cammino del Eroe (che è il modello basico della struttura tradizionale dai tempi della mitologia) è il momento del viaggio all’inferno, quando l’eroe perde tutto e viaggia a un (reale o metaforico) oltretomba dal quale gli costa di più uscire.
Solo per dire che alcune strutture che sembrano avere ragioni commerciali hanno in realtà origini più remote.
(Ho passato il correttore e non mi sono accorto: chiaramente è una “correzione tecnica” e non “etnica”).