Risky business
- 2 Maggio 2014
- 14 Commenti
Siamo nel Ventunesimo Secolo. Ci sono internet, il crowd-funding, le licenze creative commons, l’autoproduzione, gli store digitali. A che cavolo serve un editore?
Per dire, Zerocalcare ha fatto tutto da solo, no? Mica ha bisogno di un editore, lui.
Se fosse vero, perché tutti gli editori d’Italia (e intendo tutti, mica solo quelli di fumetti, fidatevi) hanno cercato di fargli firmare un contratto? Che cosa hanno mai da offrire le Case editrici a un autore?
Vediamo un po’. Dal momento in cui un libro smette di essere solo un progetto sulla carta, per una Casa editrice, comporta degli investimenti: dopo lo stanziamento per l’anticipo all’autore, bisogna stabilire la tiratura. Non ci sono dati certi, per deciderla, visto che le copie ordinate dalle librerie generaliste possono generare riordini, ma anche rese, e che gli ordini del circuito delle fumetterie arrivano molto a ridosso del momento di mettere in vendita il libro stesso. Per evitare che il costo per copia del volume sia troppo alto la tiratura deve essere non più bassa di un certo numero di copie, ma per non incorrere in eccessive spese di trasporto e stoccaggio non deve essere assurdamente più alta delle stime di possibile vendita.
Si tende a cercare di paragonare ogni libro a un volume chiamato gemello, uscito l’anno prima e di cui già si conosca la performance. Per esempio, BAO sta per pubblicare Come prima di Alfred, che consideriamo gemello di Portugal di Pedrosa. È un assunto rischioso, perché Portugal è andato molto bene (quasi cinquemila copie in due anni), ma crediamo che il pubblico che ha amato il libro di Pedrosa vorrà anche quello di Alfred e abbiamo calcolato la tiratura di conseguenza.
L’editore quindi fornisce le copie alle fumetterie e alle librerie di varia (il che significa stampare centinaia di copie dei copertinari per la rete promozionale, andare alle riunioni di aggiornamento della rete, caricare le anagrafiche dei titoli nel portale del distributore…), gestisce la fatturazione, manda copie ai punti vendita dove saranno fatte presentazioni, gestisce gli invii stampa, informa la rete dei promotori di ogni passaggio sulla stampa o in televisione del libro, contatta le grandi librerie online per assicurarsi che abbiano sempre scorte dei titoli più caldi (quando Amazon dice “attualmente non disponibile” siamo noi a chiamarli per assicurarci che abbiano riordinato e che avvertano la loro clientela), evade gli ordini dello shop online per assicurarsi che nessuno resti senza il libro (e questo vale più per il passaparola che per le mere vendite: se un libro è bello, chi lo vede in mano a una persona amica spesso finisce con il volerlo acquistare, è il momento in cui la qualità di un oggetto è la sua migliore pubblicità) e prepara il calendario degli eventi che servono a dare eco mediatica al prodotto e a far incontrare i lettori e l’autore. Senza dimenticare gli stand alle fiere principali del settore, per massificare l’esperienza di questi incontri, fondamentali per creare una fan base.
Ovvio, se il libro malauguratamente non interessa a nessuno niente di quanto ho elencato può assicurargli il successo, e anche per questo l’editore deve essere molto serio e responsabile nello scegliere cosa pubblicare e cosa rifiutare, ma ancora più grande è la responsabilità di essere pronto a monte del ciclo di creazione del libro ad affrontare le spese inerenti alle attività che ho elencato. Ovvio, se l’ottanta percento della clientela si trovasse su internet, non ci sarebbe motivo di dividere i guadagni con una Casa editrice: chiunque avesse un blog e un conto Paypal potrebbe vendere quasi lo stesso numero di copie senza bisogno di convincere nessuno a investire su di lui. Il lavoro dell’editore nei confronti di un autore, oltre alla cura e all’assistenza nella realizzazione del libro consiste nel focalizzare l’attenzione della parte più grande possibile dell’utenza potenziale e di portare quelle persone ad acquistare il libro. È qualcosa che un autore non potrà mai fare da solo, neanche se un domani il mercato cominciasse a basarsi interamente sugli storefront digitali.
Lo sapete qual è la domanda che ci fanno più spesso all’estero, quando vogliono capire quanto è seria BAO?
“Quanti siete, in azienda?”
Perché dando per scontato che quelle persone le dobbiamo pagare, e che quindi ci siano necessarie, il numero di addetti dà la misura del volume d’affari. La risposta, nel nostro caso, è undici persone: un editore-ufficio stampa, un direttore editoriale-responsabile dei diritti stranieri, un direttore commerciale, un caporedattore, un editor per l’infanzia, un editor per il digitale, due grafici, un responsabile amministrativo, un controller di gestione e last but definitely not least un’assistente ufficio stampa. Questo è l’organico che ci serve per trovare, contrattualizzare, far tradurre, stampare, promuovere, commercializzare e far conoscere ottanta libri l’anno. È il solo modo di fare? No. Ci sono Case editrici composte da una persona sola, che coordina una serie di collaboratori esterni e che fanno un ottimo lavoro, affrontando con successo perfino un mercato ostico e complesso come quello delle edicole. Il fatto è che non si possono fare le nozze con i fichi secchi. La struttura ha dei costi, certi, e nessuna certezza di guadagno. Ma non se ne può prescindere, soprattutto quando l’obiettivo a medio termine è l’ampliamento della platea dei lettori, che quindi si devono andare a cercare al di fuori dei circuiti già fidelizzati (sempre meglio che fondare il proprio business plan sul portare via i lettori alla concorrenza, no? A noi piace l’idea che i nostri libri diventino imprescindibili, non che vengano letti a scapito degli altri libri belli che escono).
La figura dell’editore è parecchio demonizzata, soprattutto da quanti faticano a varcare la soglia del mondo degli autori pubblicati. Siamo immaginati come aguzzini che, fasciati nella vestaglia di seta di Hugh Hefner, gozzovigliano sulle spalle degli autori, come nella parabola del ricco Epulone (che però non aveva la vestaglia). La verità è che non tutti gli editori sono in grado di creare le condizioni giuste perché un libro se la giochi sul mercato, ammesso che abbia le carte per sfondare. Quindi: si può fare a meno di un editore? Certo, senza problemi. Si possono raggiungere da soli gli stessi risultati che un buon editore può ottenere? No. È un dato di fatto.
Ma ancora una volta, è questione di non accontentarsi. L’obiettivo degli autori dev’essere creare qualcosa con il potenziale per avvincere molti, e identificare (e interessare) l’editore giusto, scelto tra quelli che sono stati capaci di generare successi in precedenza. Quella tra l’autore che il pubblico stava aspettando e l’editore che ha saputo farlo finire sotto gli occhi (e nelle librerie) di tutti è una collaborazione, una sinergia, un’alchimia. Basata sull’onestà reciproca. Se pensando al vostro editore la parola che ho appena scritto in neretto vi fa sorridere, dovete semplicemente cambiare editore.
14 commenti su “Risky business”
Salve,
mi scuso ma ho trovato una contraddizione con quanto scritto nel post del 30 aprile.
Lei scriveva: “La parte strategica della nostra attività al momento è occupata largamente dalla gestione dell’innovazione: dai nuovi canali di vendita ai nuovi supporti (digitali e intangibili)”.
Inoltre in questo articolo cita Amazon e gli shop online.
Dopo di che afferma che 80% della clientela non si trova su internet, quindi strategicamente non riesco a capire… conviene o non conviene investire su prodotti online?
Saluti
Antonio
Antonio, lei non ha capito non uno, ma due post. Mi dispiace. In futuro cercherò di essere più chiaro ancora.
Salve,
la ringrazio della risposta… molto probabilmente ho frainteso alcuni passaggi dei suoi post.
“Per dire, Zerocalcare ha fatto tutto da solo, no? Mica ha bisogno di un editore, lui.
Se fosse vero, perché tutti gli editori d’Italia (e intendo tutti, mica solo quelli di fumetti, fidatevi) hanno cercato di fargli firmare un contratto?”
Il motivo è ovvio – autore popolare e bravo con grandi potenzialità commerciali – la domanda contestuale e conseguenziale al concetto espresso sarebbe dovuta essere: Se fosse vero, perché Zerocalcare ha fatto di tutto per avere un contratto da una casa editrice?
Ma non è vero. Anzi, siamo stati noi a convincerlo. Lui stava bene anche senza di noi. L’abbiamo convinto con i fatti che era una buona idea, collaborare con un editore “sveglio”. Non diciamo sciocchezze, per favore. E il motivo non era affatto ovvio: nessuno poteva prevedere che avrebbe avuto così tanto successo.
G.le Michele, da qualche anno mi sono riaffacciato al fumetto dopo 25 anni in cui mi son divertito con la grafica, la pubblicità e internet. Era una strada lavorativa che potevo intraprendere ma, dovendo monetizzare subito, ho scelto altre possibilità che mi hanno portato soddisfacenti risultati sia come imprenditore di me stesso che come padre.
Mi sono subito incuriosito alla Bao per la qualità dei fumetti, ma soprattutto per la qualità di stampa nell’epoca del facilmente riproducibile. Ora pero’ volevo proporvi un’idea di fumetto di qualità molto simile allo stile di Glyn Dillon (che ho comprato quando è uscito in Inghilterra e non avevo dubbi che foste voi a pubblicare…) ma proprio le “congiunzioni astrali” vogliono che in questo periodo abbiate aperto questo blog. E i post che stanno uscendo, tutti molto interessanti non capisco a chi si rivolgano.
L’impressione che mi danno è che siano rivolti a potenziali nuovi autori (come me) o a gente che (presumo) veda il fumetto come un prodotto seriale di bassa qualità e che quindi dobbiate giustificare i vostri costi (alti). Gli argomenti e le cifre da voi trattati li conosco molto bene anche se non li ho mai applicati al fumetto.
Volevo investire del tempo, togliendolo al mio lavoro attuale, per il fumetto che vorrei realizzare ma con i precedenti post riguardo all'”anticipo” e tutto il resto, mi sono demoralizzato e il pensiero va all’autoproduzione.
Cioè preferisci metterci tu i soldi e sperare che qualcuno si accorga che hai fatto un libro? Suvvia.
Certamente la figura dell’editore non è una figura professionale trascurabile, e non solo dal punto di vista pubblicitario/promozionale/organizzativo. Tuttavia in qualche modo sta passando l’idea che se ne possa fare a meno, in particolar modo passando per l’autoproduzione. Non ho ancora avuto modo di leggere il libro di Sara Pavan a riguardo, ma il fiorire di realtà indipendenti o apparentemente tali sembra indicare abbastanza chiaramente quale strada si stia cercando di intraprendere.
Il digitale, poi, sta facilitando enormemente questo tipo di approccio che esclude dal dialogo la figura dell’editore… E temo che questo non sia, soprattutto a lungo termine, un bene. Ma quindi come si fa a far passare il messaggio che un editore serve davvero, che non è solo una bocca in più con cui spartire la torta, quando sembra di poterne fare a meno (cosa alla quale personalmente non credo, beninteso)?
In particolar modo come si fa a convincere tutti coloro che stanno dalla parte “bocciata” della linea? Perché persuadere Zerocalcare che con un editore venderà più copie e quindi farà più soldi è facile. Persuadere un esordiente che, pur non pubblicando il suo fumetto, il lavoro dell’editore è necessario è tutt’altra storia.
Che tradotto sarebbe come si fa a fare ‘sto lavoro nel ventunesimo secolo, quando tutti credono di poter far meglio da sé?
Ps: mi scuso se mi sono dilungato troppo, è un tema cui mi capita di pensare abbastanza spesso ultimamente. Intanto grazie mille dell’attenzione, e complimenti per la piega che il blog sta prendendo.
Interessante. Mi piace molto il modo in cui BAO affronta i suoi progetti editoriali, dal concept fino alla cura del volume. Tra le realtà dell’editoria italiana a fumetti al momento ritengo sia la più promettente dal punto di vista della qualità dei contenuti. Tuttavia non capisco bene le 5000 copie vendute in due anni. È questo il risultato a medio termine di cui si parla nell’articolo? È un buon risultato per il tipo di pubblicazione, per l’autore o in senso lato? Su 80 uscite l’anno, se tutte raggiungessero le 5000 copie vendute in due anni, l’editore totalizzerebbe 400.000 copie vendute (200.000 l’anno) il che non mi sembra un risultato da capogiro per l’editore, figuriamoci per il singolo autore. Tutto il lavoro descritto, nonchè il rischio d’impresa per queste cifre?
Forse perchè l’assunto non menzionato è “parliamo del mercato locale, non del mercato globale” ?
Alessandro. MAGARI i titoli arrivassero a 5000 copie in due anni. Spesso non arrivano a MILLE. E questi sono anche i numeri della narrativa in prosa nelle librerie. Temo che tu sopravvaluti di molto le vendite di libri e fumetti. Ne riparleremo.
Caspita, neanche 1000 copie in due anni? Possibile? E questo a fronte dell’enorme lavoro dell’editore descritto nel post? Alla luce di questi numeri, l’affermazione “un editore è utile ad un autore per vendere 1000, massimo 5000 copie in due anni su un mercato nazionale”, è troppo ottimistica o rispecchia una realtà plausibile?
E’ una forbice troppo ampia per dare qualche valore a quella frase, Alessandro. Ogni libro fa storia a sé. Alcuni vendono pochissimo, altri diventano successi. Bisogna essere attrezzati per il successo e pronti ad assorbire i fallimenti. Si lavora per espandere il lettorato, ma questi sono davvero numeri che rispecchiano il mercato del libro. Sai qual è la media di copie vendute per libro, in Italia (intesa come numero totale di libri venduti diviso numero di titoli pubblicati in un anno) OTTANTADUE COPIE. Tale è lo stato del mercato.
So sad…
Siete i migliori! 🙂