Tradurre le emozioni – A beginner’s guide
- 2 Marzo 2017
- 8 Commenti
Tradurre un’opera letteraria è una tra le più nobili e donchisciottesche delle imprese necessarie a far succedere un libro fuori dai confini del Paese dove è nato. Molto è stato detto e scritto sulla filosofia della traduzione, ma sulle specificità di questo fondamentale lavoro nell’ambito del Fumetto non si dice mai abbastanza, secondo me.
Nel 2001 ho comprato un fumetto pubblicato da una casa editrice che meno di due anni dopo sarebbe fallita, la Lexy, tradotto da una serie americana di un editore che meno di due anni dopo sarebbe fallito, la Crossgen, e sono inorridito. La traduzione era così pedestre che alcune espressioni in inglese che il traduttore non aveva capito erano state scambiate per nomi e cognomi e lasciate tali e quali all’originale. Scrissi una lettera per lamentarmi, la mandai per fax alla Casa editrice
[Pausa: sì. Un fax. Sì. Sono così vecchio.]dicendo che avrei voluto riavere i soldi dell’albo, perché ero molto deluso. La risposta che ricevetti diceva, essenzialmente, che c’erano modi migliori di proporsi a un’azienda, ma che sarebbero stati contenti di ricevere un mio preventivo per le mie prestazioni di traduttore.
Così, alla tenera età di venticinque anni, imparai una lezione preziosissima: a volte passi prove cui non sapevi di starti sottoponendo. E ti senti molto figo. Altre volte fallisci prove cui non sapevi di starti sottoponendo. E incolpi la sfiga. Invece la sfiga non esiste: devi sapere che potresti essere messo alla prova in ogni momento, qualunque cosa stiate facendo, dicendo… o traducendo.
Sì, perché se questa regola è preziosissima quando sei il più giovane colonnello dell’esercito britannico e ti stringono d’assedio tra il Sudafrica e il Botswana nel 1899, lo è ancora di più se traducete da una lingua straniera verso la vostra, perché i lettori possono, a volte, captare i vostri processi mentali e, in questi casi, sarà meglio che li sappiate difendere.
Tradurre per il Fumetto è un’attività tra le più improvvisate e meno disciplinate tra quelle che contribuiscono al nostro comparto editoriale, ma come tutte le attività di traduzione è fortemente meritocratica: chi ci sa fare davvero si vede, si sente. Il problema di chi si improvvisa traduttore è che si tende a pensare di poter compensare ciò che non si sa comprendere perfettamente nella lingua di partenza con un uso perfetto dell’italiano. E nella mia esperienza di editor ho trovato più persone che sopravvalutano il loro italiano di quante ce ne siano che sopravvalutano le loro conoscenze di lingue straniere. Tradurre fumetti è un lavoro ingrato, con un innegabile vantaggio e una rogna colossale che è impossibile aggirare.
Il vantaggio è che, come nella lettura dei fumetti, è possibile fermarsi con frequenza e riprendere a tradurre senza dover “rodare” la voce stilistica, a differenza delle traduzioni di narrativa in prosa, che è preferibile affrontare per periodi piuttosto lunghi, senza interruzioni. La rogna è che i balloon sono di una certa dimensione, e sono stati costruiti intorno alle battute in lingua originale, che nella maggior parte dei casi esprime i concetti con maggiore sintesi rispetto all’italiano. In prosa, una traduzione dall’inglese all’italiano può arrivare ad essere lunga 1,3 volte il testo originale. Nel fumetto è impossibile consentire lo stesso rapporto, le battute devono essere più o meno della stessa lunghezza in entrambe le lingue.
Digressione legata a quanto ho appena scritto: quando chiedo agli aspiranti autori di scrivere un soggetto che ci stia rigorosamente in una pagina, a volte ricevo testi scritti a corpo 5, con margini minuscoli, come se un amanuense con la sindrome di Asperger avesse cercato di copiare l’intero manuale di istruzioni di un videoregistratore (sì, sono davvero così vecchio) su un chicco di riso. Ecco, nel Fumetto è da evitare. Una volta stabilita la dimensione, la spaziatura del lettering, quei parametri vanno diminuiti solo se qualcuno in una certa vignetta sta bisbigliando, o viceversa aumentati se qualcuno grida, ma in ogni altro caso non sta al lettering compensare il fatto che la traduzione non è sufficientemente sintetica.
Con l’esperienza diventa meno difficile. Ma a quel punto c’è un altro ostacolo da superare: nelle traduzioni di fumetti ci sono due o tre diversi registri linguistici, che devono coabitare in modo armonioso. I dialoghi nei balloon, che sono l’equivalente fumettistico del discorso diretto, possono avere un tono colloquiale, addirittura simulare accenti, difetti di pronuncia, perché devono somigliare a un plausibile “parlato” tra i personaggi della storia. Le didascalie hanno, nel caso di narratore onnisciente, un registro leggermente più alto, meno informale, a meno che non siano monologo interiore o annotazioni diaristiche, che hanno specificità peculiari. Se poi c’è del testo a scorrere, cioè in prosa, il registro è ancora più alto e linguisticamente corretto. Badate: sto parlando di effettiva proprietà di linguaggio, non di seriosità. Per esempio: “Ehi, hai un po’ di zucchero da prestarmi?” va bene per un balloon, ma in una didascalia con la voce del narratore è preferibile scrivere “Quando si risvegliò stava un poco meglio”, evitando l’elisione.
Una volta mi sono trovato a lavorare con un noto adattatore di film d’animazione giapponesi. Dovevo trascrivere alcuni suoi dialoghi per un libro dedicato al lungometraggio che lui aveva adattato per il doppiaggio. Gli chiesi il permesso di rendere più grammaticalmente corrette certe sue frasi perché – era la verità, non una scusa diplomatica – una frase dalla struttura discutibile si perdona se la senti al cinema e non contiene palesi errori, ma se la si legge stampata su una pagina salta decisamente all’occhio. Lui mi accordò il permesso, ma ci tenne a spiegarmi che il suo primo dovere era il rispetto per la lingua giapponese.
Sono passati dieci anni, ma sono ancora convinto che si sbagliasse. La responsabilità del traduttore è verso i futuri fruitori della sua traduzione. È fondamentale non tradire le intenzioni del testo originale, ma è altrettanto importante non costringere mai chi legge o ascolta una traduzione a domandarsi “Cosa diavolo voleva dire?” Parafraserò una frase del famoso letterista Todd Klein, che lo diceva del suo mestiere: un traduttore è come le posate al ristorante. Le noti solo se sono sporche. Idealmente, un traduttore che fa davvero bene il suo lavoro dovrebbe far pensare al lettore che lo scrittore dei testi è davvero bravo, senza che ci si ponga il problema di chi ha mediato le sue parole spostandole dalla cultura che le ha generate a quella di una lingua completamente diversa. Tuttavia, siccome quello delle traduzioni è un mondo molto meritocratico – che è un modo gentile per dire che quelli bravi spiccano perché c’è un sacco di lavoro anche per quelli meno bravi – e i lettori sono stati spesso esposti, loro malgrado, a traduzioni farraginose, o troppo letterali, o che non indagavano abbastanza a fondo sulle intenzioni dello scrittore, si finisce per notare anche la bravura dei traduttori più validi. Il che è giusto e sacrosanto ma, ripeto, in un mondo ideale non succederebbe.
Tra le trappole più comuni c’è quella di voler tendere ad adattare troppo. Per la cultura francese, che ha praticamente bandito l’esterofilia, è normale far seguire qualunque parola straniera da un asterisco che ne spiega il significato in francese in calce alla vignetta. Certo, se un fumetto americano fa riferimento a un episodio del Late Night Show non potete tradurre facendo diventare quel programma il Maurizio Costanzo Show (ve l’avevo detto: vecchio come il cucco). Se il contesto consente di capire il riferimento senza bisogno di note o stravolgimenti, tanto meglio.
Digressione: la nostra cultura ci permette di fare lo stesso con gli effetti sonori. Una rana americana fa ribit! Ribit! e non c’è bisogno, per questo di farle fare cra! Cra! Se fossimo olandesi, però, un roditore che mastica del legno facendo scrunch! verrebbe “doppiato” e il suono diventerebbe scrontsij!
Anche per quanto riguarda il ricorso alle note, vige la regola del buonsenso: se un gioco di parole risulta realmente intraducibile, può rendersi necessario fare una nota a pie’ di vignetta o di pagina, perché se il lettore non comprende il calembour non può procedere serenamente nella lettura. Se una nota si rende necessaria per contestualizzare un aspetto culturale che il lettore italiano potrebbe ignorare, invece, è preferibile contemplare una sezione di note in appendice all’opera, per non appesantire le tavole, alterandone l’equilibrio visuale creato dal disegnatore.
Un aspetto specifico delle traduzioni a fumetti è l’uso dei neretti, proprio in maniera particolare dei fumetti americani. Molto spesso si vedono traduzioni in cui sono state rese in neretto le stesse parole che lo erano nella versione inglese, e in certi casi è un errore. Il neretto nei dialoghi di un fumetto è un’enfasi su una specifica parola che a volte si può comprendere solo leggendo la battuta ad alta voce. Spostare quell’enfasi in un altro punto di una frase la può far cambiare impercettibilmente, e l’accumularsi di piccole variazioni di intento, neretto dopo neretto, può realmente cambiare il tono di un dialogo, tradendolo.
In certi casi poi è semplicemente sbagliato.
Immaginiamo che un personaggio ringhi all’interlocutore, stizzito: Don’t tell me what to do!
La tentazione di tradurre con Non dirmi cosa devo fare! è forte, lo so. Però non ha alcun senso. In inglese “don’t” è un verbo, quindi l’enfasi è data all’imperativo. Se non si vuole nerettare troppo testo, è molto meglio dire: Non dirmi cosa devo fare! per far capire che chi parla si sta ribellando a quella che vive come una ingiusta imposizione. L’unico caso in cui in italiano avrebbe senso mettere in neretto la particella negativa sarebbe nel caso in cui la battuta precedente fosse: Sai quale sarebbe la sola cosa più grave di dirmi cosa devo fare? Non dirmi cosa devo fare! perché in questo caso evidenziare la negazione crea il contrasto paradossale con il periodo precedente.
In generale, nerettare le stesse parole del testo originale costituisce nel Fumetto una forma di calco, che è l’anatema assoluto del traduttore. Rendere pedissequamente la stessa forma strutturale di un’espressione da un’altra lingua vi rende vulnerabili: un lettore che abbia una anche modesta conoscenza della lingua di partenza si accorgerà di un calco, di una traduzione letterale ed errata, in qualche punto del testo, e da quel momento non si fiderà più della vostra traduzione. Ecco perché essere troppo letterali è un peccato veniale, e non accorgersi dei calchi è un peccato mortale, per un traduttore. La struttura di ogni frase va ripensata per la propria lingua, perché sia la scelta più naturale e appropriata.
Quando traducevo i romanzi di Tom Clancy, mi ero reso conto che c’erano alcuni verbi usati e abusati dagli autori americani per far prendere tempo ai loro personaggi. Uno era to lean back in the chair, ovvero appoggiarsi allo schienale della sedia. Durante i lunghi dialoghi pareva che i personaggi non facessero altro. Un altro era to shrug, ovvero scrollare le spalle. Veniva scritto così spesso che avevo preso ad alternare tre traduzioni per creare impercettibili varazioni emotive: alzare le spalle (ammissione di ignoranza), scrollare le spalle (disinteresse pilatesco per una faccenda) e fare spallucce (quando il personaggio voleva minimizzare). Questo perché nella lingua inglese le ripetizioni sono più tollerate e in certi casi sono considerate un tratto stilistico. In italiano sono invece segno di sciatteria e del fatto che il testo è stato riletto troppo poco.
Quando una ripetizione non è necessaria per uno stratagemma narrativo, se non viene eliminata usando opportuni sinonimi, è un calco concettuale e abbassa il livello qualitativo della traduzione.
Se state pensando di candidarvi per tradurre fumetti, scrivete all’editore dicendovi pronti a una prova di traduzione, e per prima cosa richiedete il loro normario. Il normario è un insieme di regole ortografiche e di formattazione che è bene tenere presente quando si lavora per una specifica redazione. Ogni Casa editrice ne ha uno diverso. Con il tempo imparerete a leggere una sola facciata di un libro e a capire che, per esempio:
«Ormai è tempo di andare» disse Jack, consultando l’orologio. «Non voglio aspettare che sia notte.»
è Rizzoli, mentre
«Ormai è tempo di andare», disse Jack, consultando l’orologio. «Non voglio aspettare che sia notte».
è Marcos y Marcos.
E non fatemi cominciare su quando il punto vada dentro le virgolette e quando fuori qui in BAO, perché c’è mezza pagina del normario solo su questo argomento. 🙂
Il tema delle traduzioni mi appassiona, e per noi qui scoprire una bella voce traduttiva è emozionante come scoprire un nuovo bravo autore. Ne riparleremo.
La settimana prossima, però, riprenderemo il discorso dei Foreign Rights. Dopo aver parlato di come si comprano, tratteremo l’aspetto inverso: la vendita.
8 commenti su “Tradurre le emozioni – A beginner’s guide”
Articolo bellissimo ed esaustivo.
Da letterista mi sarebbe piaciuto che la frase sulle forchette di Todd Klein fosse riferita al lettering, perché sarebbe stata perfetta anche in questo caso. E hai fatto bene a rimarcare che il lettering non va rimpicciolito per risolvere i problemi di traduzione (avete mai visto un libro in prosa con il corpo del carattere variabile senza alcuno specifico motivo?).
D’accordo anche sull’opinione degli adattamenti dei film d’animazione giapponese: l’attenzione va posta al fruitore locale, non alla lingua d’origine, e trovare una sintesi tra i due modi è quello che fa la differenza qualitativa in una traduzione.
Buon lavoro.
Maurizio, la frase di Todd ERA sul lettering, io l’ho adattata alla traduzione! Grazie per le belle parole.
Allora sono più contento!
La citerò al Corso di Lettering.
Grazie.
Hai reso perfettamente il fascino ed il potere nascosto della traduzione, che trovo più evidente nel termine latino da cui origina. “Traducere” è letteralmente trasportare, far passare attraverso. Non solo al di là delle barriere più evidenti di costruzione della frase e di sintassi in genere, ma anche oltre i veli delle sottili differenze culturali, Di filigrana tanto più sottile quando i mondi culturali di partenza e di arrivo sono più affini (penso all’ambito angloamericano ed al nostro) e tenuto conto che nel contesto del Fumetto questi confini si fanno ancora più sfumati. E la traduzione non può e non deve essere calco, come dici tu, Ma trasposizione… traslazione, giusto per citare anche il termine inglese. Che comporta buona conoscenza appunto della lingua e degli stilemi espressivi del mondo di partenza e di quello di arrivo. L’esempio che hai citato sulle ripetizioni, che in inglese sono concesse o addirittura tratto distintivo ed in italiano, salvo precisa scelta stilistica o di veicolazione di uno stato d’animo (penso a “Gli increati” di Antonio Moresco) sono invece inequivocabile segno di sciatteria, non solo in traduzione ma anche in scrittura, è illuminante.
Grazie, buon cibo per la mente come sempre.
Mi permetto di dire anch’io la mia per quanto riguarda le ripetizioni. Abbiamo esempi (uno, almeno, e penso si tratti dello stesso elemento che il signor Foschini ha citato nel suo articolo) di persone che usano anche in italiano le ripetizioni così come si trovano nella lingua d’origine, per mantenere una presunta fedeltà con il testo originale; perfino ripetizioni di nomi, soggetti o complementi oggetti, laddove in italiano si userebbero dei pronomi. In questi casi non si parla più di sciatteria, ma di vero e proprio rifiuto delle principali regole della traduzione e dell’adattamento.
Che bello il riferimento a Mafeking! Come mai hai deciso di usare proprio quell’avvenimento? Io ne sono particolarmente affezionato…
E che voglia di provare a tradurre fumetti!
Perché ha provocato l’invenzione dello scoutismo è perché c’era in una delle mie traduzioni preferite, La voce del fuoco di Alan Moore (che co-tradussi con l’immenso Leonardo Rizzi).
Grazie! E buona caccia, allora!